Interviste ai nonni

di Benedetta Pierobon

«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Primo Levi, Se questo è un uomo Primo Levi è riuscito con una frase a mettere in luce quello che considero lo scopo principale per cui ancor oggi riflettiamo sulla Storia. Indagare il passato, conoscerlo e dov’è possibile comprenderne le più profonde ragioni, anche se, come ci è stato dimostrato, non è abbastanza, è tuttavia fondamentale per evitare che nel futuro si ripresentino ancora gli stessi errori. E’, quindi, importante mantenere vivo il ricordo del secolo scorso, e proprio per questo motivo ho deciso di intervistare mio nonno. Anche perché la storia non è solamente la narrazione scolastica dei grandi momenti collettivi, come, sbagliando, molte volte rischiamo di pensare, ma la storia è anche formata dalle testimonianze dei singoli individui che l’hanno vissuta. Soprattutto al seguito dell’emanazione di una serie di leggi, ordinanze e circolari “Per la difesa della pura razza italiana”, negli anni del fascismo, in Italia, si è fortemente diffuso un acceso sentimento antisemita che era già largamente condiviso in gran parte dell’Europa sin dal secolo precedente.  Il Veneto, in particolare, era una regione abitata per la maggior parte da famiglie contadine che vivevano in condizioni molti umili e dai grandi proprietari terrieri che risiedevano nei centri urbani. L’adesione a tali leggi, quindi, per molte famiglie, era solo mossa dalla grande paura del partito, e non da un’effettiva condivisione di certe idee razziste. Infatti vi erano moltissime famiglie che, nascondendosi dalle forze dell’ordine locali, tentavano nel loro piccolo di aiutare gli ebrei perseguitati dai fascisti. Una di queste famiglie era quella di mio nonno. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale mio nonno aveva solamente 10 anni, ma ricorda lucidamente molte delle dinamiche che ha vissuto in prima persona e che, a sua volta, gli sono state tramandate dal padre o dal nonno paterno, profondamente antifascista. La famiglia di mio nonno abitava in un casale fra il comune di Resana (TV) e quello di Loreggia (PD) nei pressi dell’argine del Muson dei Sassi, un corso d’acqua che collega Castelfranco Veneto a Padova. L’abitazione era collocata proprio a fianco a delle rotaie, visibili ancor oggi, dove quasi quotidianamente passava il treno che da Padova arrivava in Austria a Mauthausen. Pur essendo soltanto un bambino, mio nonno ricorda con le lacrime quando insieme al fratello mentre giocavano lungo il fiume vedevano il treno arrivare e gli uomini, le donne e i bambini li salutavano sorridendo, inconsapevoli della loro meta – “come degli animali spediti al macello”, continuava a ripetermi. Questo tipo di esperienza segnò talmente la sua famiglia, da non tirarsi indietro quando un gruppo di partigiani chiese di nascondere armi e rifornimenti e due ebrei nel fienile e nelle stalle. Allo stesso modo molte famiglie dell’epoca aiutavano quei pochi che con l’aiuto dei partigiani riuscivano a fuggire, nel rischio costante, però, di essere scoperti. Infatti, mio nonno racconta di aver visto parecchie case di amici di famiglia e compaesani bruciate dai fascisti. Nonostante i ripetuti controlli aerei e le minacce via radio, riuscirono a tenere nascosti i due ebrei fino alla liberazione da parte degli Americani. Un paio di anni fa le famiglie di questi due uomini, l’una dal Sudafrica e l’altra dall’Austria, riuscirono a contattare la mia famiglia per ringraziare e portare le parole dei loro familiari che, in punto di morte, ricordarono il mio trisnonno come colui che aveva salvato le loro vite. Questa è una delle molte storie di vita che possiamo ancora ascoltare direttamente da coloro che hanno vissuto tali esperienze. La guerra e la Shoah non sono avvenimenti distanti dalle nostre vite, i segni per ritrovarli sono ancora visibili dal momento che hanno condizionato per più di un decennio il nostro territorio e i nostri familiari, anche per questo motivo è bene ricordare, la perdita della memoria comporterebbe cancellare una parte della Storia. E’ importante continuare ad indagare e a scoprire nuovi aspetti del passato, perché è attraverso ciò che è stato che cogliamo l’essenza del presente e mettiamo le basi per il nostro futuro. Inoltre questi racconti riescono a mantenere vivo il ricordo di quegli anni, dei dolori e delle sofferenze che la guerra ha causato a chi ha avuto il destino di viverla.

di Valeria Zilio 

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, si ricordano le vittime dell’Olocausto, lo sterminio del popolo ebraico avvenuto nei campi di concentramento per opera dei nazi-fascisti, una tragedia da non dimenticare. Bruno Emilio Pantano, 92 anni, è mio nonno. In lui sono ancora vividi i ricordi della guerra, immagini atroci, indelebili nella sua memoria. Egli, quando la Seconda guerra mondiale inizia, frequenta la quinta elementare a Padova, è solo un bambino: 1 registrazione Vivendo in via dei Savonarola vicino ad una caserma di ”artiglieria di campagna”,  si trovava spesso a stretto contatto con i militari:  affacciandosi alla finestra vedeva il loro via vai quando erano pronti per andare in guerra.  Sua mamma aveva una trattoria, i soldati andavano lì e lui stava ad ascoltare le loro storie. In particolare è vivo il ricordo della loro sfilata, armati di cannoni pronti per combattere in Russia nel 1941. Della guerra però, le notizie che trasparivano erano ben poche e la maggior parte soggette alla censura e alla propaganda fascista. Fino al ‘43 il peso della guerra gravava sulle persone, ma nella città di Padova e in quelle adiacenti la situazione si era mantenuta tranquilla. Nel ‘43 iniziarono però i bombardamenti. Al suono dell’allarme la gente iniziava a fuggire; con la borsa già pronta contenente i pochi gioielli di famiglia mio nonno e i suoi familiari, la madre, il padre e il fratello minore scappavano nel rifugio più vicino in cerca di un riparo. Vi erano vari rifugi a Padova: il più sicuro si trovava in centro ed era il cosiddetto “rifugio della Palanca”, termine dialettale che indicava la moneta. Si trovava presso il palazzo delle Debite con affaccio su piazza delle Erbe, nel quale venivano imprigionati coloro che avevano contratto debiti. Un altro rifugio era stato costruito in un quartiere vicino a quello di porta Savonarola nei pressi delle vecchie mura cittadine: collocato in parte sotto di esse, in parte in una galleria solo interrata quindi poco sicura. Lì mio nonno perse uno zio paterno e i due cugini ventenni a causa del potente spostamento d’aria causato dallo scoppio di una bomba. In quegli anni in Italia degli ebrei si sapeva poco e ancora meno delle persecuzioni tanto le informazioni erano sotto il controllo fascista per evitare di creare allarmismi e perché meno le persone sapevano meglio era. 2 registrazione Qualcosa però si sentiva nell’aria: le distinzioni erano palpabili, il ghetto era diventato un luogo chiuso in cui isolare la maggior parte degli ebrei e mio nonno con gli occhi lucidi ricorda: 3 registrazione Grande importanza ha avuto la propaganda negativa che veniva fatta sugli ebrei per metterli in cattiva luce. Nei cinema si proiettavano notiziari che dipingevano gli ebrei come usurai, gente della quale bisognava diffidare, diffondendo stereotipi negativi su di loro. Una volta anche mio nonno era andato a vedere al cinema un film di propaganda intitolato “Suss l’ebreo” e tutto ciò veniva fatto con lo scopo di emarginarli e di istigare diffidenza e odio nei loro confronti. Spesso quando si parla della giornata della memoria e della Shoah si pensa che tutto questo sia successo lontano da noi. Purtroppo non è così e persone come mio nonno ne sono testimoni. Nella città di Padova, come in molte altre del Veneto, la discriminazione del popolo ebraico si è fatta sentire. Mio nonno ha vissuto ed è sopravvissuto alla guerra ma il prezzo che ha dovuto pagare è stato quello di convivere per tutta la vita con il dolore. Suo fratello maggiore fu preso dai fascisti perché partigiano e fu portato nel campo di concentramento di Mauthausen. Non lo ha mai più rivisto. Nel ‘43 Vladimiro, così si chiamava, si era arruolato militare; dopo l’armistizio divenne partigiano con il nome di battaglia di Giorgio. Mio nonno lo vedeva poco, in quanto costretto a scappare e a nascondersi dapprima a Padova, poi in collina e in montagna. A tutto il suo gruppo venne tesa una trappola e nel 1944 furono catturati dalla famigerata Brigata Carità, brigata fascista che catturò con loro anche molti ebrei. Il campo di concentramento di Mauthausen è solo uno dei 40.000 campi (dato indicativo in quanto il numero complessivo di queste strutture non è stato stabilito con certezza) che furono installati nei paesi dell’Europa occupati dalla Germania nazista, molti dei quali vennero distrutti dagli stessi tedeschi prima dell’arrivo degli alleati. Questi campi furono usati per diversi scopi, tra i quali i lavori forzati, la detenzione di chi era considerato nemico dello Stato e l’eliminazione in massa dei prigionieri. Ma la verità è che non ci sono motivi validi per cui sono stati costruiti, per cui il genere umano si è spinto a questo punto, per cui l’uomo ha compiuto un vero e proprio massacro. Non ci sono ragioni per giustificare ciò che è successo e forse è proprio per questo che si fa ancora fatica a credere che sia stato possibile. Ed è per tale ragione che bisogna ricordare, perché dimenticare potrebbe riportare l’uomo a commettere ancora quelle atrocità.

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di Francesco Signor

ANGELO E ANTONIETTA ZIZZOLA: DUE PERSONE NORMALI CHE A SALVAROSA E A CASTELFRANCO FECERO LA DIFFERENZA Molto spesso quando parliamo di Seconda guerra mondiale ricordiamo gli eroi e le persone più importanti che fecero la differenza combattendo assurde dittature a rischio della propria vita. Ma non serve necessariamente guardare tanto lontano per trovare chi ha lottato per rendere il nostro mondo un posto migliore. Indagando le nostre stesse radici famigliari si può scoprire che i nostri antenati hanno fatto molto più di quello che ci saremmo aspettati. Questo è quello che ho fatto io. Sapevo che la mia bisnonna ebbe un ruolo importante per Castelfranco Veneto, ma quello che ho scoperto andando a intervistare Floria Zizzola, una mia prozia con una spiccata passione per gli eventi che hanno interessato la mia famiglia, è stato illuminante. La mia bisnonna si chiamava Antonietta Minato, era conosciuta da tutti come Maestra Zizzola, in ricordo della professione che esercitò dal 1938 al 1973. Nacque il 31 marzo 1914, pochi mesi prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, a causa della quale rimase orfana dopo la cattura e la conseguente scomparsa del padre durante la ritirata da Caporetto. Andò quindi a vivere con i nonni e gli zii, dai quali fu costretta a separarsi per continuare gli studi in un Istituto che accoglieva minori orfani a Oderzo. Nel 1931, a 17 anni, ottenne il diploma magistrale. Nel giugno del 1941 si sposò con Angelo Zizzola, della nota famiglia di pasticceri, il quale gestiva un’attività di spaccio alimentare a Salvarosa, frazione di Castelfranco. Con la guerra furono diversi gli avvenimenti che caratterizzarono i giorni di Antonietta e Angelo. Antonietta, infatti, era già parte dell’Azione Cattolica, unica associazione non fascista lasciata in vita da Mussolini, e grazie a ciò si impegnò in campo sociale e culturale. Fu lei tra le prime persone nella Castellana a parlare di diritti femminili e di voto alle donne, fatto per il quale veniva guardata con sospetto dai fascisti presenti in città, ciò la portò, soprattutto dopo la guerra, a collaborare attivamente con figure del calibro di Tina Anselmi e Maria Pia del Canton. L’impegno sociale di Antonietta, però, si vide anche durante gli anni della guerra. Insieme al marito Angelo nascose tre soldati, probabilmente tedeschi, ma comunque di dubbia provenienza, a scappare dalle persecuzioni che avvenivano nei confronti dei disertori. Fu infatti grazie alla posizione strategica del forno di Angelo che diverse persone si recavano dalla famiglia Zizzola per cercare una qualche forma di nascondiglio dal fascismo, che negli ultimi anni della guerra si era progressivamente incattivito. Casa Zizzola era diventata quindi un punto di riferimento, non solo per la comunità di Salvarosa, ma anche per la stessa Castelfranco. Fu per questo che nell’inverno tra il 1944 e il 1945, Angelo Zizzola fu catturato dalle SS per essere portato nella Caserma Salsa a Treviso. Grazie allo sforzo dei partigiani e alla mediazione di Antonietta, Angelo venne infine liberato, ma non scordò mai la terribile esperienza cui fu sottoposto ogni sera quando avvenivano gli interrogatori. Per tenere viva la memoria di questi avvenimenti ho intervistato Floria Zizzola, la quarta figlia di Angelo e Antonietta. Queste sono le sue parole. INTRODUZIONE: COM’ERA LA VITA A CASTELFRANCO NELLA CITTA’ VENETE NEGLI ANNI DELLA GUERRA LA CATTURA DI ANGELO ZIZZOLA PERSONE NASCOSTE NELLE CAMPAGNE I TRE “TEDESCHI” IMPEGNO SOCIALE DELLA “MAESTRA ZIZZOLA”

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