Ero il 190712

di Gabriele Scappin

190712, questo è il numero che venne tatuato nel campo di concentramento di Birkenau a Bruno Piazza, un avvocato triestino arrestato nella sua città natale e condotto nella risiera di San Sabba, uno dei campi di detenzione nazista. “Contro di me le denunce erano due: ero accusato di antifascismo e, crimine senza attenuanti, dovevo essere considerato di razza ebraica secondo le famose leggi di Norimberga”. Queste leggi, emanate nel settembre del 1935 dal partito Nazionalsocialista tedesco, classificavano scrupolosamente la razza ebraica al fine di emarginarla il più possibile dal Reich. Bruno Piazza, essendo ebreo solamente da parte di madre, venne dichiarato “meticcio ebreo”, trasportato nei carri di bestiame con altri centinaia di anziani, donne e bambini, raggiunse il campo di sterminio di Birkenau, in Polonia. “Non siamo già più di questo mondo, entriamo in qualche meandro infernale e camminiamo come automi, mossi non dalla nostra volontà, ma da un congegno meccanico ignoto, una molla caricata che ci fa andare. Alt! Ci fermiamo. Avanti! Proseguiamo”. Con queste parole egli descrive l’organizzazione dannatamente precisa e spietata del lager, che comprendeva sette campi, ciascuno contrassegnato da una lettera dell’alfabeto e con una funzione diversa, si veniva selezionati in base al sesso, all’età e alla razza.  Ogni campo conteneva una trentina di baracche, i blocke, adibiti a dormitorio, cucina, magazzino, infermeria e lavatoio. Una volta arrivati si doveva fornire le proprie generalità, i propri averi e tutto ciò che un uomo poteva possedere; in seguito si veniva inviati nelle docce, lavati e depilati, spogliati della propria essenza e delle peculiarità che differenziano un essere umano dall’altro, fra gli insulti, gli spintoni e le risa dei nazisti. “Al di là dei fili, baracche, e a fianco di ogni baracca uno spiazzo illuminato. In un pulviscolo giallo si scorgevano confusamente strane figure che correvano lungo il recinto, poi figurine più piccole, bambini, che caracollavano come in una giostra. Visti da lontano quegli spiazzi illuminati davano l’impressione di tanti circhi equestri nei quali agissero strani cavallerizzi”. Infine, immersi nell’aria putrida e nella fanghiglia invernale, si veniva condotti all’interno del reticolato: a ciascuno le proprie vesti stracciate, la propria baracca, il proprio tavolaccio in legno, dove potersi riposare in attesa del giorno successivo. “Entrai nel Block. Dalla porta esso mi sembrò, con tutte quelle scritte sulle travature, uno strano bazar. Poi ebbi l’impressione di entrare nella stiva di una galera, quindi mi parve di scendere in una catacomba, ma la sera, quando la baracca fu piena di oltre ottocento persone che vociavano, gridavano, si spingevano, l’impressione che ne ricevetti fu quella di una bolgia infernale”. “La convivenza con centinaia di persone nelle baracche era già di per sé un tormento. Ogni movimento, ogni gesto, ogni atto veniva sempre spiato da centinaia, talvolta migliaia di occhi. L’uomo ha bisogno, almeno per brevi momenti, della solitudine. Noi non eravamo mai soli, neppure col pensiero”. Il controllo continuo che i tedeschi imponevano ai detenuti, sia da parte delle guardie sia fra i prigionieri stessi, era un’inevitabile sofferenza cui si doveva sottostare e che, nel migliore dei casi portava alla sottomissione, nel peggiore alla pazzia. Lo stato di natura conduce l’uomo a perdere la sua umanità, mentre i suoi valori e principi etici, il bene o il male, assumono sfumature molto diverse e forse molto più semplici di quelle cui siamo abituati: vivere o morire rappresentavano le uniche due scelte possibili. Ma per vivere era spesso necessario rubare del cibo al proprio compagno di letto, ottenere una razione in più alla mensa a discapito degli altri, sottrarre qualche panno pulito. “Nessuno dava nulla; si rubava al vicino l’unico pezzo di pane. Si diceva: “Per vivere qui bisogna rubare” e, poiché il furto rimaneva impunito, i primi a derubarci erano i capi stessi.” Il comando di ogni baracca veniva affidato al kapo, che solitamente veniva scelto dalle SS – l’organizzazione militare del governo nazista – fra i delinquenti tedeschi condannati ad anni di lavori forzati o alla prigionia. In pratica non si degnavano nemmeno di sorvegliare i detenuti, ma lasciavano questo compito a coloro che ormai venivano considerati reietti della società. Il capo blocco aveva diritto di vita e di morte sui detenuti ma, se nella maggior parte dei casi utilizzava questo suo potere per vendicarsi della sua condizione insultando, malmenando e sfruttando gli ebrei, capitava di rado che potesse provare compassione nei loro confronti, ricordando le punizioni che anch’egli subiva nelle prigioni naziste. Di uguale provenienza ma superiori in linea gerarchica erano i capi Lager, che estendevano il loro controllo – e le loro punizioni – su tutto il campo. Avevano inoltre la possibilità di contattare il comando militare tedesco, per fornire e ricevere informazioni riguardo l’andamento della guerra. Il campo era inoltre disseminato da un’ulteriore serie di gerarchie minori, composte da scrivani, assistenti, corrieri, che avevano in comune con i “kapo” l’incontestabile possibilità di punire: “nessuno si opponeva alle percosse dei capi perché questo significava ribellione, e la ribellione era punita con la morte”. “Uscito dal Block, mi si avvicinarono dei visi pallidi, emaciati, con grandi macchie sulle guance e sul mento. Mi dissero che la vita del campo si poteva compendiare in tre parole: fame, botte, lavoro”. Le principali cause di morte erano la fame, in quanto buona parte della razione di cibo, lo stretto necessario per mantenere in vita un uomo, veniva sottratto dai kapo; le botte, perché ogni minimo errore veniva punito con insulti e percosse. “Arbeit macht frei”. Il lavoro rende liberi, stava scritto su uno degli ingressi del campo di Auschwitz. Infatti era il lavoro, per la maggior parte dei casi, a liberarci dalle pene di quel mondo”. Ma era proprio il lavoro l’unica salvezza: chi non era più “utile” al funzionamento del Lager veniva inviato nel lazzaretto, un Block particolare che avrebbe dovuto fungere da ospedale per malati e invalidi, ma che talvolta, a causa dell’assenza di farmaci, li condannava, attraverso le selezioni, alle camere a gas. In realtà la selezione partiva da molto prima: i bambini più piccoli venivano immediatamente eliminati al loro arrivo, così come i più anziani. Se si passava questa prima fase, si veniva marchiati: “ora siamo dei numeri. Non solo il nostro nome, ma anche la nostra personalità sparisce dietro quel numero che ci resterà addosso e sarà noi fino a quando ci resterà pelle sulle ossa. A me toccò il numero 190712, un numero fortunato, se si pensa che sono riuscito a portarlo fuori da quell’inferno”. I numeri venivano tatuati seguendo un criterio ben preciso, distinguendo cioè ebrei di razza pura, a cui veniva assegnato un numero basso, da quelli di razza mista e dai deportati politici, che erano contrassegnati da una cifra più alta che spesso consentiva di evitare le selezioni. Ma l’estenuante lavoro del Lager non fece altro che prolungare l’agonia di Bruno, portandolo ad un deterioramento progressivo della propria salute e, di conseguenza, ad essere selezionato dai tedeschi: “mentre il dottor Mengele era già passato al prossimo, lo scrivano mi alzò il braccio sinistro e, avvicinandoselo agli occhi, segnò sul taccuino il mio numero: 190.712. Ero condannato a morte. “L’avvocato triestino venne condotto all’interno delle camere a gas, dove fu costretto ad attendere un giorno intero prima di essere liberato perché considerato erroneamente deportato politico. La notte del 20 settembre 1944 morirono migliaia di ebrei, ma Bruno Piazza riuscì inspiegabilmente a salvarsi e, come ricorda nelle sue memorie, attese nel lazzaretto l’arrivo dei Russi, sospeso fra la vita e la morte. Le vicende del lager sarebbero dovute rimanere segrete: i tedeschi mai avrebbero potuto permettere a qualcuno di testimoniare le disumane condizioni inflitte. Ma il caso, la fermezza d’animo e lo strascico di umanità che una persona poteva portarsi fuori da Auschwitz bastarono a Bruno Piazza per decidere di testimoniare quanto aveva visto e vissuto. Una morte ignobile, senza scopo, non potendo combattere, trattati come bestie da macello, costretti a vivere in condizioni disumane. La storia va avanti, è un continuo mutamento, ma sta all’uomo comprenderne i suoi sviluppi ed imparare da essi, saper andare avanti ma non dimenticare; infatti, alla domanda che dà il titolo al libro, l’autore sembra rivolgersi proprio a noi: stiamo forse dimenticando? Evidentemente sì, e a dirlo al giorno d’oggi non sono soltanto i campi di prigionia sparsi in tutto il mondo, che confinano persone costrette a vivere senza diritti e in condizioni precarie, piuttosto gli episodi di razzismo diffusi purtroppo anche nel paese in cui viviamo. L’abuso di potere è una delle tematiche più diffuse oggigiorno: l’assassinio di Willy, ragazzo di origini africane che venne ucciso tentando di proteggere un amico, ne rappresenta l’emblema, così come la morte di Geroge Floyd, soffocato senza un valido motivo da un poliziotto di Minneapolis, scatenando vere rivolte negli USA e l’indignazione di tutto il mondo, ed  infine la prigionia ingiustificata di nazioni come Libia, Corea e Cina, che sfruttano il loro controllo sulla popolazione per incarcerare e reprimere minoranze religiose, etniche e culturali, ma anche avversari politici, profughi e migranti. La verità è che oggi, grazie alla rete di informazioni che ci confermano, purtroppo, queste azioni di crudeltà e violenza, avremmo la possibilità di informare, sensibilizzare ed intervenire nell’immediato, cosa difficilmente fattibile durante la Seconda guerra mondiale. Il fenomeno che si manifestò al suo termine fu proprio l’incredulità diffusa fra la popolazione, che si rifiutava di credere alle storie raccontate dai pochi superstiti usciti a stento da quell’inferno; la brutalità tedesca, pur non essendo riuscita a impedire che si vedessero i campi e le vittime, fu comunque capace, paradossalmente, di destare incredulità e scetticismo tra le persone, diffidenti dell’atrocità delle storie che venivano raccontate. Ma è grazie a quelle stesse storie se noi oggi possiamo guardare al futuro consapevoli di ciò che il male allora ha prodotto: osservare la realtà con una maggiore consapevolezza non solo degli eventi storici, ma anche delle singole persone che li hanno vissuti ci rende dei cittadini che riflettono, pensano ma, soprattutto, non dimenticano.